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Ritorniamo sul libro realizzato qualche tempo fa da Miria Gasperi, dal titolo “Boschi e vallate dell’appennino romagnolo”, edito dalla società editrice “Il Ponte Vecchio” di Cesena, con importanti contributi di Oscar Bandini, Carlo Lovari e William Rossi Vannini. Miria Gasperi ama profondamente il territorio
in cui vive; la ringraziamo di cuore per averci
permesso di stralciare delle parti del suo bellissimo lavoro che possono interessare i lettori di Mondo del Gusto; qui racconta le strade del legno, i percorsi per far arrivare i tronchi ai cantieri navali di Pisa o a quelli edili di Firenze.
I vasti boschi che si estendono nell’alto Appennino Tosco-Romagnolo, fra i Mandrioli e il Falterona, definiti comunemente come “Foreste Casentinesi” ed oggi compresi nell’omonimo Parco Nazionale, da secoli sono stati oggetto di grande interesse e di sfruttamento per il pregiato legname che se ne ricavava. Il legno serviva soprtattutto a rifornire i cantieri di Firenze e di Pisa; nel capoluogo toscano i tronchi venivano utilizzati principalmente per opere di carpenteria e come materiale da costruzione, per impalcature o per realizzare travi di monumenti e abitazioni.
Il legname proveniente dalla Romagna e dal Casentino è infatti divenuto parte integrante della struttura edilizia di molte chiese e palazzi di Firenze. A Pisa e in altre città del litorale tirrenico, come Livorno, invece, il legname alimentava una fiorente industria navale.
Lo sfruttamento delle foreste fu un privilegio per il territorio toscano. Fra il 1380 ed il 1442 questi boschi divennero proprietà della Repubblica di Firenze che li espropriò a danno dei possedimenti dei Conti Guidi e li assegnò all’Opera del Duomo di Santa Maria del Fiore. Con il passaggio di proprietà la gestione venne affidata all’amministrazione dei Consoli dell’Arte della Lana, con il compito di procurare legname per l’Opera e di emanare leggi e regole per l’esecuzione dei tagli.
L’utilizzazione del bosco fu piuttosto intensa in questo periodo; infatti l’Opera, interessata più al reddito che ad una corretta gestione, vendeva il bosco anche “in piedi” a privati che successivamente procedevano al taglio e all’utilizzazione in proprio. Con il Granduca Leopoldo di Lorena, nel 1777 si concesse alle comunità di montagna il permesso di fare legna nelle foreste, anche nelle zone più pregiate. Il risultato dal punto di vista ambientale fu disastroso. Tagli eccessivi e sfruttamento intenso hanno permesso alle popolazioni di superare la crisi alimentare, ma per il bosco il danno fu grave.
Furono soprattutto le popolazione del versante Toscano ad usufruire della ricchezza del bosco, dal momento che sul versante romagnolo vi era minor richiesta, in quanto l’economia era agricola e pastorale, e anche per le maggiori difficoltà di trasporto dovute ad una più precaria rete viaria, in particolare nelle zone montane.
Il taglio degli alberi interessava gran parte del sistema forestale, rimanendo esclusi solo i boschi delle zone più impervie ed isolate. La prima operazione consisteva nella marchiatura, o “martellata”: in pratica i grandi tronchi d’albero che dovevano essere abbattuti venivano segnati togliendo un po’ di corteccia alla base del tronco, battendovi sopra con un martello sul quale era impresso un marchio che si riferiva all’ente gestore o alla proprietà.
Con questo mezzo di trasporto il legname veniva convogliato nei fondovalle e da qui indirizzato, attraverso il Casentino, ai porti fluviali sull’Arno. Questi erano dislocati nei vari punti di sbocco delle vallate: a Ponte a Poppi giungeva il legname della via usata dai monaci Camaldolesi, quello proveniente dalla Lama e dalla Romagna finiva a Stia e Pratovecchio; in quest’ultima località vi erano un porto fluviale ed un deposito dell’Opera del Duomo. Infine, per i tronchi provenienti da Pian delle Fontanelle, dal Corsoio e da Pian del Grado, il percorso giungeva a Dicomano.
Il trasporto richiedeva tempo e grande fatica; spesso infatti il legname, ricavato dal taglio sui versanti romagnoli, per giungere a destinazione, doveva essere trascinato da molte paia di buoi, dapprima in salita verso il crinale, e quindi ridiscendere verso l’Arno, attraverso appositi sentieri: uno di questi risale dalla piana della Lama lungo il Fosso degli Acuti fino al crinale. Ancora oggi questi sentieri portano il nome di “bordonaie”; tale denominazione deriva dai cosiddetti “bordoni”, paletti di legno conficcati nel terreno che delimitavano il sentiero e che avevano la funzione di guidare i tronchi evitando il loro sfregamento contro gli alberi della foresta e facilitandone quindi il trasporto con gli animali.
Gli elevati costi di smacchio rendevano conveniente solo l’utilizzo delle piante di grandi dimensioni e di maggior pregio; era importante soprattutto salvaguardare le colonnari piante di abete bianco, alcune delle quali veramente eccezionali se, come è testimoniato da un documento dell’epoca, una volta per trasportare un solo tronco occorsero sessanta paia di buoi!
Giunti all’Arno, i tronchi venivano affidati al fiume; nel primo tratto del loro percorso fluviale erano guidati da buoi lungo le sponde, sempre per il tramite di funi, per giungere a Poppi, dove l’Arno si fa più ampio grazie all’apporto degli affluenti Solano e Sova. Da qui i tronchi venivano legati fra loro con fasce di cuoio o funi a formare grandi zattere chiamate “foderi”. Queste proseguivano il loro percorso lungo il fiume, “cavalcate” e custodite da appositi operai, chiamati appunto “foderatori”, i quali con con l’uso di pertiche guidavano i grandi fasci di legname lungo il corso d’acqua al fine di evitare che si arenassero o rimanessero bloccati dalla vegetazione delle rive.
La fluitazione lungo il corso dell’Arno avveniva per tappe successive, e le soste erano in corrispondenza di locande ed osterie. Il viaggio da Pratovecchio a Firenze durava circa dieci giorni ed altrettanti per arrivare al mare. Lungo il fiume i punti più difficili da passare con i foderi erano le pescaie, sbarramenti creati per deviare le acque verso mulini ed altri opifici presenti presso le sponde. In questi casi era presente una chiusa laterale, detta “foderaia”, dove attraverso l’innalzamento temporaneo delle saracinesche si consentiva il passaggio delle zattere.
Il legname, giunto finalmente a destinazione, veniva depositato al Porto presso il Ponte Vecchio (oggi Piazza Mentana). Gran parte del materiale veniva utilizzato nella città di Firenze, altro invece proseguiva il suo viaggio fino al mare. L’Opera infatti vendeva a caro prezzo il legname agli arsenali di Livorno, di Pisa e all’Ordine dei Cavalieri di Malta.
Il legno del Casentino si trovava in vendita anche a Marsiglia e nel mezzogiorno della Francia. I grandi tronchi di abete bianco erano utilizzati soprattutto come materiale da costruzione, sia per l’allestimento dei cantieri che per gli edifici stessi. Un uso particolare era quello cui erano destinati i tronchi d’abete più belli e perfettamente rettilinei, coi quali infatti venivano realizzati gli alberi maestri ed i pennoni delle navi; a questo proposito si racconta che alcuni ingegneri navali si recavano personalmente nelle foreste Casentinesi per scegliere gli alberi migliori prima ancora che fossero abbattuti.
Fonte web: romagna.mondodelgusto.it
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Credits: Gruppo Volta